Mercato Viminale

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icona alimentareicona abbigliamentoIl principale motivo per andare al mercato Viminale, in via Cesare Balbo a due passi da via Nazionale, diciamolo pure tranquillamente è la signora Anna. Con i suoi 84 anni (di cui 66 anni dietro al suo banco) si candida naturalmente a essere la memoria storica del mercato.

Tra i banchi del mercato

“Era il 1947, ero una ragazza... avevo 18 anni e sono rimasta incinta del mio primo figlio, un maschio. Era il dopoguerra, la situazione era brutta, si lavorava ma con poco margine perché c'era molta concorrenza tra banchi. Quando abbiamo iniziato io e mio marito il mercato era fatto solo banchi di frutta e verdura, mentre oggi siamo rimasti solo noi e un altro. Eppure oggi è peggio: la gente compra uno o due frutti, non due o tre chili come si faceva allora, anche per colpa della chiusura alle auto del centro storico”.
Insieme ai due figli, Enzo e Amedeo, e alla nuora francese Christine, la signora Anna porta avanti il suo banco che nato per sola frutta, negli anni naturalmente si è allargato agli ortaggi e si è specializzato in verdura pulita (“la sera sto fino alle 10, 30 a capare fagiolini, a sgranare piselli e fagioli”). Dei primi tempi i ricordi più vivi della signora Anna sono legati ai suoi clienti. “Io ero così giovane, avevo un figlio piccolo e dovevo lavorare. Le mie clienti sono state un grande aiuto: davano il latte al pupo, lo portavano in giro, lo cullavano perché io dovevo servire”.3
Oggi il mercato di via Cesare Balbo è molto cambiato. Della sessantina di commercianti in frutta e verdura sono rimasti solo Anna e la sua famiglia e un altro commerciante. Sul fronte alimentare ci sono una macelleria e la pizzicheria di Romina. Tutto intorno banchi di biancheria, abbigliamento, bigiotteria, scarpe, trucchi. Quasi tutti a rotazione, un giorno qui e un giorno là.
“Dopo quello di Anna il nostro è il banco più vecchio del mercato – racconta Romina, che ha ereditato l'attività dal padre Cipriano – Io sto qua da quando sono nata, ho 42 anni e mio padre ha comprato il banco nel '69, due anni prima. Dal '93 il testimone è passato a me mentre mio papà fa il “nonno-sitter” e si occupa dei miei due figli che sono piccoli. I miei ricordi del mercato risalgono a quando ero bambina, andavo a scuola qua vicino e subito dopo le lezioni venivo qua”. Romina con il suo banco di salumi, formaggi e alimentari cerca di mantenere viva la tradizione gastronomica familiare. La mamma e il papà sono umbri, uno di Spoleto e l'altra di Vallo di Nera quindi, soprattutto in inverno, salumi, salse al tartufo e altre prelibatezze della zona vengono proposti ai tanti turisti in transito dal mercato.
Oltre a loro, i clienti principali sono i ministeriali, gli impiegati (“che arrivano di corsa in pausa pranzo”), ma anche uno zoccolo duro di persone anziane che ancora vivono in centro a cui Romina offre uno sgabello per sedersi mentre fanno la spesa, o ai quali porta a casa la sporta rominadella spesa perché non possono portare pesi.
“Negli anni queste persone anziane che conosco da quando sono bambina stanno venendo a mancare ed è una clientela che non si ripopola. Mentre aumentano sempre più i turisti che vengono anche da lontano e che comprano salami e formaggi da portare a casa. Tra gennaio e febbraio per esempio c'è l'invasione dei russi che vengono in Italia in cerca di un clima più mite e oltre alle migliori temperature si portano anche qualche specialità italiana”.

Il paese di Alice

“La prima volta che sono stata al mercato Viminale avevo pochi mesi, era estate, faceva un gran caldo e io ero un po' stanca. Ma ero pure curiosa di vedere la frutta e la verdura. Io tanto per capirci all'epoca andavo ancora avanti a omogenizzati di mela e pere e a pappine che mi preparava la mia mamma...5
E così nonostante gli occhi che si chiudevano, continuavo a guardarmi intorno, ad osservare, oltre alla frutta e gli ortaggi, le borse, i vestiti, i foulard, i formaggi, i salami. Poi però mi sono scocciata e ho cominciato a piangere e così la mia mamma, a passo di carica, ha cominciato ad andare su e giù per via Cesare Balbo, che va detto è una strada in discesa (o in salita, dipende) piena di sassoloni che mia mamma mi ha poi spiegato si chiamano sanpietrini e io così mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata ho fatto ancora a tempo a vedere un banco pieno di trucchi e un cartello Da Singh tutto a tre euro”.

Quattro passi più in là

A quattro passi da via Cesare Balbo sorge la Basilica di Santa Maria Maggiore, tappa obbligata di ogni pellegrinaggio romano. Lo sa bene Papa Francesco, che ha scelto proprio questa chiesa per la prima visita da pontefice, una preghiera di buon mattino poche ore dopo la fumata bianca che lo aveva consacrato vescovo di Roma. Le cronache raccontato di come Bergoglio abbia pregato nella cappella Paolina, dove si venera l'antica immagine di Maria Salus Populi Romani, e nella cappella Sistina, che ospita lo splendido presepio scolpito da Arnolfo di Cambio. Ma ai nostri visitatori preferiamo segnalare un monumento che non cattura l'occhio, ed è anzi difficile da individuare al primo colpo. Si trova sotto un gradino, sul lato destro dell'altare maggiore. E' la TOMBA DEL BERNINI. Per una volta l'artista che ha rivestito di splendore barocco la Città Eterna ci lascia a bocca aperta non per la meraviglia delle sue creazioni scultoree o la genialità delle soluzioni architettoniche, ma per l'assoluta semplicità del suo monumento funebre, una sobrietà al limite dell'anonimato. Una lastra di pietra, e la scritta “Giovanni Lorenzo Bernini, gloria delle arti e della città, qui umilmente riposa”. Un'umiltà che certo a Papa Francesco non sarà dispiaciuta.

E, da aficionado di questa basilica, il pontefice “venuto dall'altra parte del mondo” conoscerà senz'altro la storia del monumento forse più curioso di Santa Maria Maggiore: il BUSTO DEL “NIGRITA”. Si tratta di una scultura in pietra nera realizzata sul calco della maschera mortuaria dell'ambasciatore del Regno del Congo Antonio Emanuele Ne Vunda. E la sua storia merita di essere raccontata. E' il 1604 quando il re del Congo Alvaro II decide di inviare un diplomatico di sua personale fiducia in Vaticano per chiedere al Papa l'invio di missionari per le sue terre, scavalcando così la mediazione del Portogallo, che esercitando la sua tutela spirituale sul regno aveva fino ad allora mandato “evangelizzatori” dediti più al commercio di schiavi che alla diffusione della Parola di Dio. E così fu scelto proprio Antonio Emanuele Ne Vunda, che del re era cugino. Ma la sua missione si trasformò presto in un'odissea. Lungo la rotta verso l'Europa venne assalito dai pirati olandesi, che lo spogliarono di tutti i doni destinati al Pontefice. Quando riuscì a raggiungere la Spagna, dei suoi 26 compagni di avventura erano rimasti in vita solo quattro. Con questo modesto seguito, nell'ottobre del 1607 riuscì a muoversi alla volta di Roma, ma nel tragitto si ammalò gravemente. E così, quando il 3 gennaio del 1608 Ne Vunda riuscì a raggiungere la Città Eterna, Papa Paolo V – che si preparava ad accoglierlo con tutti gli onori riservati a principi e imperatori – si trovò di fronte un uomo sfinito e debilitato dalle febbri. Dispose di alloggiarlo in una delle più belle stanze del Palazzo Apostolico, gli mise a disposizione i suoi medici personali e gli rese visita sul letto di malattia, una scena tutt'oggi immortalata in un affresco nel corridoio che conduce alla Cappella Sistina, in Vaticano. Ma a nulla valsero le premure del pontefice: il 6 gennaio, giorno dell'Epifania, il “nigrita” morì. Paolo V allora decise di seppellirlo nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove ancora oggi lo si può ammirare nel busto in marmo nero di Libia commissionato dallo stesso Papa allo scultore Francesco Caporale. Ultima nota: secondo alcuni storici, il vero scopo della missione di Ne Vunda era quello di chiedere al Papa aiuto per porre fine alla tratta degli schiavi. Un motivo in più per rendere omaggio a questa nobile e sfortunata figura.

teatrooperaUscendo da Santa Maria Maggiore, e attraversando piazzale Esquilino, a pochi passi si raggiunge il TEATRO DELL'OPERA, oggi “casa” del maestro Riccardo Muti, che ne è direttore onorario a vita. Conosciuto anche come Teatro Costanzi – dal nome del suo artefice e primo impresario – fu inaugurato nel 1880 con la “Semiramide” di Rossini. Nel ferro di cavallo della sua sala, a fine '800 sono risuonate per la prima volta le note della “Cavalleria rusticana” e de “L'amico Fritz” di Mascagni, ma forse la “prima” più celebre del Teatro dell'Opera è quella che ha inaugurato in musica il XX Secolo: il 14 gennaio del 1900 infatti è andata in scena per la prima volta la “Tosca” di Puccini. Le cronache raccontano di una serata non priva di tensioni, con il direttore d'orchestra costretto a interrompere l'esecuzione per colpa di alcuni spettatori ritardatari. Ma la tensione vera si coglieva dietro le quinte, e non era soltanto l'ansia che di norma accompagna ogni debutto: poco prima di salire sul podio, il direttore era stato informato da funzionari di polizia della possibilità che una bomba esplodesse durante la rappresentazione. Che si trattasse di melomani appartenenti a una fazione ostile a Puccini (in quegli anni di accesissime rivalità musicali, non di rado i “fan” di altri compositori ricorrevano a forme estreme di boicottaggio dei rivali) o di anarchici (sul palco ad assistere all'opera c'erano il Presidente del Consiglio Pelloux e la Regina Margherita, che in vero giunse a teatro dopo il primo atto), la minaccia era da considerarsi credibile. Questo clima fece sì che l'esecuzione non riuscisse indimenticabile, come buona parte della stampa sottolineò l'indomani. Ma alla fine il pubblico tributò Puccini e gli interpreti con sette chiamate, e per più di venti repliche il Teatro dell'Opera registrò il tutto esaurito, consegnando la “Tosca” al posto che merita nella storia della musica. Il visitatore che oggi passa nella piazza intitolata al grande tenore Beniamino Gigli non si troverà di fronte allo stile neorinascimentale che accoglieva gli spettatori di inizio '900. L'aspetto attuale del teatro è opera dell'architetto Marcello Piacentini, cui nel 1926 – e poi una seconda volta esattamente trent'anni dopo – fu affidato il restauro del “vecchio” Costanzi. E' stato Piacentini a volere lo splendido lampadario in cristallo di Murano che tutt'oggi fa bella mostra di sé all'interno del teatro: pare si tratti del più grande esistente al mondo, nel suo genere. Ma i custodi non vi consentiranno di dargli un'occhiata in una qualsiasi ora del giorno: se volete vederlo, dovrete far stirare un vestito buono e acquistare il biglietto per uno spettacolo. Vedrete, ne vale la pena.


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